Il Perdono

Bea aveva in tasca trecento euro pagati in nero, la chiave di casa spaccata a metà e il piglio severo di una frustrante fame di un’altra vita a indurire i lineamenti non più così giovani. Ettore aveva le mani piene di rughe, guanti a mezze dita rotti, un cappotto bucato e l’eco forte e imponente dell’uomo distinto che era una volta, a ripararlo dal freddo.

  • Ha fatto presto al lavoro, stasera. Sono le undici.
  • Sì, il pub era vuoto. E lei come lo sa?
  • La vedo ogni giorno. Abito proprio difronte al pub ormai da qualche mese. Quei cartoni lì, siamo io e Alfie. Non mi fraintenda, io controllo solo lei arrivi a casa sana e salva.

Alfie sentendo il proprio nome sollevò il muso ispido. Bea trattenne un respiro e schiuse le labbra per dire qualcosa, Ettore la bloccò.

  • Stia tranquilla, lo so che lei non mi ha mai visto. Lo capisco, sa.
  • Mi dispiace e… grazie.
  • Aspetta qualcuno?
  • Ho rotto la chiave di casa, la mia coinquilina non torna prima di domani.
  • Non ha amici?
  • No, non sono molto brava in questo.
  • Ha me e Alfie. Ci permetta di attendere con lei, camminiamo.

Camminarono a lungo, Ettore, Bea e Alfie. Ettore con quell’aria di uno che, pur avendo perso tutto, in quel bizzarro trio sembrava aver ritrovato sé stesso dopo una lunga e logorante ricerca. Alfie con la sua leggerezza e il peso degli anni sulle zampe corte. Bea che a ogni passo lasciava dietro di sé un pensiero pesante dopo l’altro, tanto per non dimenticare la strada del ritorno. Camminarono e finirono per raccontarsi la loro vita. Entrambi si ritrovarono a condividere una storia fatta di assenze e, come tale, di attese e speranze tradite. Ettore era al quarto stadio terminale, un cancro allo stomaco se lo stava divorando.

  • Me lo fa un regalo, Bea? Passi con me la giornata di domani.

Il corpo e la mente di Bea avevano dimenticato la stanchezza, quindi acconsentì. Ettore aveva un programma preciso, studiato per anni scavando a mani nude nei ricordi di pietra di un inverno lontano. Colazione in una creperia davanti alla fontana di Stravinsky, una passeggiata sugli Champs-Élysées, la ricerca di un vecchio negozio di giocattoli dove Ettore comprò una scimmia di peluche gialla, che chiamò Mia. Infine, al calare della sera, la Tour Eiffel. Dall’alto e con gli occhi pieni di lacrime per il vento Ettore le indicò la Senna, le raccontò di Parigi e dei suoi luoghi. Bea tremava per il freddo, ma non le importava. Non c’erano altri posti dove avrebbe voluto essere. Ettore pagò anche l’ultima metro finendo così tutti i propri risparmi, che Bea scoprì essere stati messi da parte inseguendo il sogno di una giornata come quella trascorsa.

Al ritorno verso casa, alle venti e trenta della sera, Ettore accompagnò Bea fin sotto il portone. La salutò stringendole le mani tra le proprie, baciandone il dorso ghiacciato con la lenta dolcezza di un addio.

  • Me lo fa un ultimo regalo?
  • Certo, Ettore.
  • Sia felice, Bea. Lei non è al mondo se non per questo. Sia felice.

Alle ore ventitré e cinquanta Bea usciva dal pub di corsa. Un’ambulanza portava via Ettore, chiuso in una busta nera. Suicidio. Di Alfie nessuna traccia. Lo trovò legato ad un palo sotto casa, con attaccata al collare una busta chiusa, e Mia poggiata contro il muro. Perdonami, figlia mia. Scritto sul retro di una vecchia foto. Ettore stringeva a sé una bambina, alle loro spalle la Tour Eiffel. Bea si riconobbe nella foto e per la prima volta, pensando a Ettore, riconobbe suo padre.


Sia felice, Bea. Lei non è al mondo se non per questo. Sia felice.

 

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